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Libertà creativa. Dialogo con Manuel Aires Mateus

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Roberto Grio, direttore di SPAM Roma, è stato il curatore del numero 63 della nostra testata IQD. Nella sua sezione, intitolata “City: Visions, Needs, Restart”, ha riportato uno stimolante dialogo avuto con l’architetto Manuel Aires Mateus per far riflettere sull’importanza per l’architettura della libertà creativa, da una parte, e della consapevolezza del peso di un’idea, che, oggi, può durare più della stessa materia usata per trasformarla in opera.

Le lecture di Manuel Aires Mateus, amico e ospite fisso del Festival dell’Architettura SPAM di Roma, si rivelano sempre
di grande interesse, oltre che per i contenuti, anche per quel suo modo semplice, ma profondo, tipico dei grandi oratori, di parlare dell’architettura, legandola alla vita, al mondo che ci circonda, ai problemi di tutti i giorni, senza mai smarrire il punto di vista privilegiato che un architetto ha nell’osservare le trasformazioni dell’ambiente, delle città, delle abitudini, delle persone. Dopo una visita insieme a Villa Adriana, è nato uno stimolante lungo dialogo tra me, Monica Ravazzolo di Paratelier, e Manuel Aires Mateus, di cui riporto solo uno stralcio, sufficiente a far riflettere sull’importanza per l’architettura della libertà creativa, da una parte, e della consapevolezza del peso di un’idea, che, oggi, può durare più della stessa materia usata per trasformarla in opera.

Virtual reconstruction of Villa Adriana by © Katatexilu

MAM: Parlando di architettura, c’è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, ed è quello per cui un architetto non dovrebbe mai lavorare per un programma rigido e predefinito. Il programma, ovvero la definizione di esigenze spaziali, destinazione d’uso e risorse, deve essere solo il punto di partenza, per poi procedere con un approccio al progetto libero e aperto ai cambiamenti. L’architettura ha bisogno di libertà. La sua mancanza è uno dei grandi problemi dell’architettura contemporanea. Le case di oggi, con funzioni e spazi rigidamente definiti, possono trasformarsi in prigioni, come ci ha rivelato la recente pandemia. L’architettura, in quanto arte incompleta che necessita della vita per completarsi, ha bisogno di libertà, di flessibilità d’uso.

RG: Pensi che questa visione sia un’eredità dell’Antica Roma? Quando siamo andati a visitare insieme Villa Adriana, hai detto che secondo te i Romani avevano già fatto tutto, e che oggi non si può più inventare nulla. Forse ci hanno anche insegnato l’importanza della coerenza tra tecnica costruttiva e edificio oltre che del rapporto dell’architettura con la natura e il paesaggio.

MAM: Gli antichi romani avevano già scritto il vocabolario dell’architettura e l’hanno usato in tanti modi diversi e con grandissima libertà. Villa Adriana è la vera espressione della libertà dell’abitare, perché vi convivono tutti i diversi modi di vivere gli spazi. Non conosco esattamente come fosse Villa Adriana ai tempi della sua costruzione e del suo massimo splendore, ma non importa, anzi, meglio, questo lascia libera la mia capacità d’immaginare le sue infinite possibilità. Villa Adriana contiene l’espressione di tutte le forme e la sua complessità è in grado di soddisfare esigenze e funzioni diverse. Tutta la libertà che oggi possiamo immaginare, la capacità di inventare luoghi inattesi, erano già presenti in quel momento storico, che rappresenta la più straordinaria lezione di architettura a cui fare riferimento.

House in Monsaraz, Manuel Aires Mateus, ph. © Rui Cardos

RG: Parlando di architettura romana non possiamo non fare riferimento alla grandiosità dei pieni e dei vuoti che la caratterizzavano. Nel tuo lavoro c’è una grande affinità con questi concetti, seppure interpretati in chiave contemporanea.

MAM: Quello che possiamo ancora imparare dall’Antica Roma è il principio di una forma di costruire, che è rimasto
immutato. La tipologia di una domus romana è ad esempio ancora attualissima. Ho passato diverso tempo a disegnare le
antiche rovine romane, affascinato da una condizione speciale che caratterizzava queste architetture: l’ambizione di
eternità. L’ambizione di permanenza è l’essenza stessa dell’architettura. Ai nostri giorni ritengo che questa ambizione
debba spostarsi più verso le idee. In questo secolo dell’effimero, l’eterno è più legato a un’idea, perché un concetto
può durare più della materia. Per fare un esempio, ricordo di aver visitato un antico villaggio di palafitte, in cui le palafitte in legno vengono ricostruite, mantenendo le caratteristiche e l’identità del villaggio, circa ogni 30 – 40 anni da oltre 500
anni. Questo concetto di cambiamento, mantenendo un’identità è molto bello. Ed è l’eternità del nostro tempo.

RG: Cambiare mantenendo è un tema molto sentito a Roma. Per molti la città è arrivata a un limite di quantità del costruito, per cui deve smettere di crescere. Si tratta, quindi, di lavorare sul tessuto esistente, sulla trasformazione, sulla ricostruzione, sul riuso, sull’integrazione e sul completamento. Si parla molto di rigenerazione urbana, che è un concetto dalle diverse sfaccettature. Può partire dal basso ed essere, quindi, un processo di trasformazione della città che avviene filtrando le esigenze di alcuni gruppi di abitanti, o può avere anche una connotazione urbanistica, dato che l’urbanistica tradizionale non può più rispondere alla complessità della pianificazione di una città come Roma.

MAM: Sono d’accordo sul fatto che contenere per valorizzare sia il primo passo, assolutamente necessario, per difendere le nostre città, ma anche le nostre periferie e le nostre campagne. Rigenerare e completare significa rimettere in uso, recuperare, trasformare, fare ciò che serve per mettere insieme le persone, fornire loro tutti i servizi necessari e far diventare la città contemporanea. E’ quello che ci chiede il nostro tempo: vivere insieme, nella collettività, in spazi comuni e democratici valorizzati. È qualcosa che devono fare tutte le città. Ricordo che qualcuno disse che le uniche tre città perfette erano New York, Venezia e Cardiff, perché limitate negli spazi, nella loro dimensione, e una volta riempiti gli spazi, possono solo continuare a guadagnare qualità. Trovo interessante il pensiero che esista un limite oltre il quale iniziare a creare valore, in modo particolare nello spazio pubblico. Una visione perfetta anche per Roma.

House in Monsaraz, Manuel Aires Mateus, ph. © Rui Cardos

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