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Le Vele di Scampia, il Coraggio di Convertire / Intervista a Massimo Pica Ciamarra

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Aprile 2021. La decisione di abbattere le Vele Verde – demolizione già avvenuta nel febbraio del 2020 – Gialla e Rossa sembra fondata sull’idea che l’inizio di una nuova vita per l’area di Scampia debba necessariamente passare attraverso l’annullamento dell’espressione architettonica di un ideale sociale, prima ancora che abitativo. Eppure sono in molti a ritenere che ci possa sempre essere un’alternativa valida alla demolizione. La trasformazione è l’opportunità di fare di più e meglio con ciò che già esiste. Sono le parole, in una sua recente dichiarazione, dell’architetto francese Anne Lacaton, insignita quest’anno con Jean-Philippe Vassal del Premio Pritker. Demolizione è una decisione facile e di breve termine. È uno spreco di molte cose: uno spreco di energia, uno spreco di materiale e uno spreco di storia. Inoltre, ha un impatto sociale molto negativo. Per noi è un atto di violenza.

Sono in molti a pensare che si possa innovare senza radere al suolo; tra questi il Professor Massimo Pica Ciamarra, a cui Roberta Busnelli, direttore editoriale di IQD, ha rivolto tre domande sulla delibera di abbattere Le Vele di Scampia.

RB: Architetto Pica Ciamarra, qual è la sua idea del progetto originale dei sette edifici che formavano il complesso delle Vele di Scampia, progettato da Franz Di Salvo tra gli anni ‘60 e ‘70?

MPC: Franz Di Salvo era un architetto esperto, al tempo stesso visionario. Basta ricordare la sua proposta per la Città Nolana e l’ultimo suo progetto, quello per il Centro Direzionale di Firenze del 1977. Nella piana di Secondigliano introduce un’immagine di paesaggio attraverso una inedita tipologia tesa a ricostruire rapporti fra gli abitanti. Due questioni del tutto ignorate dagli affastellamenti scatolari abitudinari, interessati solo all’ottimizzazione di loro singoli aspetti. Franz Di Salvo non era coinvolto nell’Accademia: il suo Studio era caratterizzato da una eccezionale professionalità e da forte rigore. Lo documentano tante delle sue esperienze. Le Vele di Scampia hanno subito gli attentati non rari negli interventi di edilizia pubblica: banalizzazioni, riduzioni, varianti, pareri di specialisti, rapacità imprenditoriali, accondiscendenza o disinteresse da parte di chi dirige i lavori. Peraltro non va dimenticato che lo spazio centrale, quello delle scale e dei percorsi, previsto di circa undici metri di larghezza, oggi risulta di otto metri, molto più ristretto.

RB: Abbattere degli edifici senza una complessa idea sociale d’intervento ha il sapore di uno show a beneficio di una certa politica. Ritiene sia il caso delle Vele di Scampia, al cui abbattimento si è sempre opposto?

MPC: Settembre 1997 – la sera prima dell’avvio del Convegno di Modena Paesaggistica e grado zero dell’architettura – ci raggiunge la notizia della demolizione delle Vele. Ricordo la rapida ironica sintesi di Bruno Zevi: Ho parlato con l’assessore De Lucia. Gli ho chiesto, perché le volete demolire? Ha risposto: non funzionano nemmeno gli ascensori! Ho ribattuto: ma non si possono riparare? Costruire è atto politico, così anche demolire. Nella contemporaneità i politici riconcorrono umori e consensi immediati; spesso non hanno la capacità di pensare davvero al futuro, quello a medio termine, non dico in ottica transgenerazionale. Per questo agiscono su questioni puntuali e in assenza di visione d’insieme: che invece è sostanziale, molto più che le risorse disponibili. Lo dimostrano due città delle quali ammiriamo trasformazioni e progressi, l’una in un Paese dove il reddito pro-capite è 90.000 euro, l’altra dove invece il reddito pro-capite è di 9.000 dollari.

RB: Una volta lei disse che è possibile demolire qualsiasi cosa, basta avere un’alternativa migliore. Premesso che so essere contrario a un’operazione di ricucitura, qual è la sua idea di alternativa concreta all’abbattimento delle ultime tre vele rimaste?

MPC: Nel panorama dell’edilizia pubblica in Italia – ben documentata nell’ancora recente ampia analisi di Stephanie Zeier Pilat (Ricostruire l’Italia, edito da Castelvecchi) – sono rare le sperimentazioni che intrecciano istanze paesaggistiche e interpretazioni di modalità dell’abitare. Nel caso del Corviale si è fatta e si sta facendo una sapiente reinvenzione, si innova senza radere al suolo. Dopo l’Expo 1967, anche l’Habitat di Montréal è stato denigrato e un po’ abbandonato. Poi è diventata una residenza ambita. Prima di pensare a demolire le Vele andrebbe capito come innovarle, come magari sostituire i loro componenti, come individuare funzioni compatibili e che presuppongano gestione unitaria, manutenzione costante. Inoltre potrebbe essere utile ragionare su come liberamente ridisegnarne l’attacco al suolo, le parti più in basso: arricchirle di attività, ripensarle in uno con le modeste aree libere al contorno, dare cura, insieme ad attenzione e valore, al non-costruito. Certo, si possono anche demolire, si può anche cancellare questa testimonianza di quando si aveva fiducia nel futuro. Solo però se si è capaci di immettere maggiore energia e maggior fiducia in rapporto a quella che ha impregnato Di Salvo nell’immaginare le Vele. Comunque non va dimenticato che questi edifici si trovano in un impianto urbano improprio, pensato e disegnato come quartiere periferico, non come parte della città. Oggi l’insieme Secondigliano / Piscinola / Marianella è da ripensare nella sua centralità a scala metropolitana, coinvolgendo e trasformando in modo sostanziale i suoi spazi non-costruiti, riducendo drasticamente le superfici asfaltate, sottraendo attraversamenti automobilistici. Occorre convertire con coraggio.

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