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RENATO RIZZI

Singolarità IQD 53

BIOGRAFIA

Nato a Rovereto nel 1951. Professore ordinario di Composizione architettonica e urbana al Dipartimento di Culture del progetto allo IUAV di Venezia, dove si è laureato nel 1977. Ha collaborato per oltre un decennio, tra gli anni ’80 e ’90, con Peter Eisenman a New York. Nel 1984 ha vinto il concorso per l’area sportiva Ghiaie, a Trento, opera alla quale viene assegnato il premio nazionale In/Arch 1992. Il progetto per la Casa Museo Depero realizzato nel 2008 vince la Medaglia d’oro all’Architettura Italiana della Triennale di Milano 2009. Nel 2014 realizza il Teatro Elisabettiano a Danzica, opera nominata al Mies van der Rohe Award 2015 e premiata con la Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana nello stesso anno. Molti suoi lavori sono stati esposti alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1984, 1985, 1996, 2002, 2010. Nel 2019 riceve il Premio del Presidente della Repubblica Italiana per l’Architettura, su indicazione dell’Accademia Nazionale di San Luca. Oltre all’attività di progettista e di insegnamento, sviluppa un intenso lavoro di ricerca pubblicando numerosi saggi. Per Rizzi didattica, ricerca e professione sono strettamente integrate, infatti il suo impegno teorico è indirizzato a riaprire il sapere tecnico-scientifico al sapere ontologico-metafisico come indispensabile e inattuale orizzonte, per la nostra contemporaneità, di Architettura.

Singolarità

Non siamo noi che guardiamo il mondo. Piuttosto è il mondo che osserva noi. E lo fa senza timore. Perché si offre come un dono alle nostre cure. Perché vuole stupirsi di fronte alle nostre opere. Tutto questo non accade però per caso e non è senza conseguenze (i miti già lo sapevano). Esso richiede un capovolgimento delle nostre facoltà mentali: del vedere o del pensare. Che sono poi la stessa cosa. Dobbiamo rovesciare completamente il nostro punto di vista abituale. Dalla visione monoculare e ravvicinata dei saperi tecnico-scientifici, alla visione binoculare e distanziata dei saperi estetico-filosofici. Per almeno tre ragioni. L’età cronologica dell’universo è ben maggiore della nostra età biologica. Le età metafisiche, nostre e dell’universo, sono invece un assoluto, equivalenti per entrambi. Infine, noi siamo comunque i mediani tra tempo cronologico e tempo assoluto. Se esiste un termine eloquente e sintetico per tutto quanto abbiamo appena detto, non ce n’è uno migliore del nome architettura. Parola dalla radice fortemente binoculare: arché-téchne. Appena sotto la lente delle sue lettere pulsano ancora intatte le potenze invisibili (archai) che plasmano il visibile (technai). Purtroppo abbiamo ignorato da secoli senso, timbro e ricchezza di quel nome. Nella sua struttura epistemica, infatti, l’acronologico (arché) è vincolato al cronologico (téchne), come l’indominabile (arché) al dominabile (téchne). Una prospettiva diversa esige quindi un mutamento altrettanto diverso nel modo di pensare i nostri abituali schemi mentali. Per esempio, rispetto ai tre grandi temi della disciplina: l’Io, il tempo, il luogo. I’Io. Non siamo più i nominativi: Io voglio, Io decido, Io faccio. Bensì i dativi: coloro che ricevono, che assorbono e filtrano (come le spugne marine). Nostro compito: essere ricettori. Nostro scopo: l’auto-negazione dell’Io, l’opposto dell’auto-referenzialità contemporanea. Il tempo. La temporalità del progetto non dipende esclusivamente dalla nostra cronologia, bensì dalla relazione con l’orizzonte di tutti i tempi. Il centro radiante non sta allora dentro di noi, piuttosto noi siamo all’interno della sua ampia circonferenza. Nostro compito è fare spazio. Il luogo. La superficie del nostro globo non è espandibile né esportabile. Ma la differenza semantica tra luogo e spazio è enorme. Lo spazio: concetto astratto, infinito e omogeneo. Il luogo: un reale concreto, finito e disomogeneo. Lo spazio abita la norma, l’indifferenziato: de-territorializza il mondo. Il luogo dimora nell’estetico, nel differenziato: ri-territorializza il mondo. Riepilogando: auto-negazione, orizzonte unitivo dei tempi, ri-territorializzazione, sono i tre soggetti operanti, le tre archai del progetto. Eppure, il primo punto di contatto delle necessità spirituali, ideali e funzionali con la materia tangibile è proprio il luogo. Da lì inizia il lavoro del progetto. Dalla sua densità geologica e morfologica impregnata dalla ciclicità dei tempi e impressa dallo sviluppo delle storie. Analogo ad un libro sacro e sigillato, il mistero del luogo ha innanzitutto bisogno del rito per essere avvicinato. Come la preghiera deve essere recitata a memoria, la rappresentazione del luogo va ripetuta molte volte. Come una cantilena. Per esorcizzarne l’enigma senza violarlo. Per non perdere il carattere della sua anima. Del suo Daimon. Per non infrangerne o per restituirne lo sguardo. Un lavoro di estrema attenzione e cura. Anche perché qui la ripetizione non procede come un ritornello. Piuttosto avanza come le rime in poesia. Segue una duplice legge: permanenza e eccezione. Ovvero: norma e verosimiglianza. Ecco quanto richiede il bistrattato vincolo estetico. La norma numerica lavora sul piano orizzontale. La verosimiglianza estetica sul piano verticale. La prima applica un principio matematico. La seconda, deriva dall’esperienza theorico-spirituale individuale. Il cui ruolo è proprio quello di modificare per ogni caso la norma matematica sul piano delle altezze. La rappresentazione è quindi sempre in bilico. Oscilla tra successo e fallimento. Senza protezioni e senza sicurezza (sine cura). Costantemente nel rischio. Questa la sua difficoltà. Poiché l’indominabile è sempre, sempre all’opera. Fino ad ora non abbiamo mai incontrato la parola singolarità, che dà il titolo a questo numero speciale della rivista e anche al suo editoriale, poiché la parola pervade ogni riga del testo. La sua assenza ha però un compito particolare. Uncinare il senso del progetto e sollevarlo tra virgolette. Infatti sono stati pubblicati quindici “progetti”. Da Venezia a Lampedusa attraversano tre continenti: Europa, Africa, Americhe. La singolarità implica fare spazio affinché emergano nel modo più autentico le singolarità di ognuno, dei luoghi e dei tempi, riportando al contempo l’Io al suo ruolo di mediatore. Di questi “progetti” vediamo appunto la loro prima fase. I luoghi. Proprio per celebrare il loro valore estetico-epico a sostegno e radicamento del “progetto”. Qualcosa che ha a che fare con una lunga storia di lavoro e preoccupazioni, alla quale hanno partecipato, in meno di un ventennio, più di millecinquecento persone, tra collaboratori in studio e studenti universitari. Da qui nasce anche l’esigenza di trovare un termine diverso per accomunare singolarità e “progetto”: liturgia. Un termine antichissimo che ci sopravanza per la sua attualità. Per restituire al mondo quello stupore iniziale che gli abbiamo sottratto.

SINGULARITY

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