Le Vele di Scampia: Rigenerare o Demolire?
Il 20 febbraio del 2020 i riflettori si sono riaccesi sul tormentato complesso delle Vele di Scampia dopo l’avvio dei lavori di demolizione della Vela Verde, originariamente contrassegnata dalla lettera A, la prima a essere abbattuta del lotto M.
Una storia tormentata, che ha inizio nei primi anni ’60, quando, a seguito della Legge 167/62, che regolava i piani di costruzione di alloggi a carattere economico e popolare, il Comune di Napoli acquisì dei terreni nel comparto urbano di Secondigliano e, col sostegno economico della Cassa del Mezzogiorno, decise di avviare un progetto abitativo di ampie vedute. I lavori di progettazione delle unità abitative del comprensorio furono affidati a Francesco Di Salvo, architetto di origine palermitana, che aveva già affrontato i temi dell’edilizia popolare nel 1945 con la realizzazione del Rione Cesare Battisti a Poggioreale.
Con il nobile obiettivo di dotare un’area periferica di una macchina abitativa autosufficiente con spazi verdi, servizi e aree collettive sul modello dell’Unité d’Habitation de Marseille di Le Corbusier del 1952, che ricordasse la struttura urbana dei decumani e dei tipici vicoli napoletani, ricreandone colori e convivialità, Di Salvo progettò su di un’area di circa 400 ettari sette grandi edifici, impegnando due lotti contigui. Costruite tra il 1962 e il 1975, quattro delle sette strutture, contraddistinte dalle lettere A, B, C e D, occuparono il lotto M e tre, indicate con le lettere F, G e H, vennero realizzate nel lotto L. Le tipologie formali adottate da Di Salvo furono due, a torre e a tenda, ed è a quest’ultima, con il suo forte impatto scenico, che si deve l’immaginario del complesso.
Il progetto originario si basava su moduli base di 1,20 m e suoi multipli, che consentivano di creare unità rispondenti alle esigenze di ogni singola abitazione. Gli edifici, dal profilo a curva parabolica e con struttura a cavalletto prefabbricata, ispirata alle grandi opere del giapponese Kenzo Tange e calcolata dall’ingegnere Riccardo Morandi, erano tutti orientati lungo l’asse nord-sud per ottimizzare le condizioni di ventilazione naturale e soleggiamento. Il modello architettonico è quello di due grandi corpi di fabbrica a gradoni – con un’altezza massima di 14 piani, serviti da scale e ascensori – separati da un vuoto centrale di 10,80 m e col15.5legati orizzontalmente da ballatoi pensili in materiali leggeri e trasparenti, sospesi a un’altezza intermedia rispetto alle quote delle abitazioni.
Il progetto originario prevedeva inoltre una serie di aree verdi, attrezzature, servizi e spazi ricreativi, oltre a centri scolastici, culturali, commerciali e sanitari. Le Vele il più grande complesso di edilizia popolare del Sud Italia, avrebbe potuto, dovuto, rappresentare un modello abitativo di aggregazione e condivisione capace di esprimere la complessità e la ricchezza delle relazioni proprie della città, fornendo la soluzione ai crescenti bisogni di housing dell’epoca. Le ragioni per cui Le Vele hanno deluso queste aspettative, da molti definite utopiche, trasformandosi negli anni nel simbolo del fallimento delle buone intenzioni, in quei luoghi del degrado, dell’emarginazione e della malavita, sono da ricercarsi nelle trasformazioni del progetto originale, volte a ridurne i costi, nell’abusivismo, nell’incuria e nel totale, lungo abbandono da parte delle istituzioni. Non certamente nell’architettura, esattamente come sembra ricordarci, con la forza dirompente della semplicità, la scritta sulla facciata di una Vela Non siamo noi il problema.
Il progetto originale di Francesco Di Salvo delle Vele di Scampia fu profondamente modificato in corso d’opera. La struttura a cavalletto non fu mai realizzata dall’impresa appaltatrice, che la sostituì con una tradizionale struttura trilitica, determinando una maggior rigidità distributiva e un conseguente avvicinamento dei due corpi di fabbrica di ogni singola struttura da 10,80 m a 8,42 m. Questa riduzione, aggravata dalla costruzione in cemento dei ballatoi, che sulla carta avrebbero dovuto essere in materiali trasparenti, e dall’abbandono del profilo a curva parabolica in favore di una forma a ziggurat, contribuì a modificare la percezione degli spazi e a impedire il passaggio della luce naturale. I muri di tamponamento con cappotto interno in polistirolo, in condizioni di completa assenza di luce e ventilazione naturale, hanno causato in pochi anni la formazione di umidità di condensa e muffe. L’aumento della densità abitativa, con un 23% di abitazioni in più, la mancata creazione delle aree comuni – previste ogni sei piani in corrispondenza dei blocchi scale – dei servizi, degli spazi verdi, dei centri, dei parchi giochi, delle attrezzature e delle infrastrutture contemplate nel progetto originale hanno compromesso rovinosamente la qualità del manufatto architettonico e, di conseguenza, quella della vita dei residenti.
Ad aggravare la situazione ci furono la scelta di assegnare le abitazioni a una sola classe sociale, quella economicamente e culturalmente più degradata, e poi l’evento disastroso del terremoto dell’Irpinia del 1980, che portò molte famiglie, rimaste senza casa, a occupare abusivamente gli alloggi, causando sovraffollamento e la creazione di illecite superfetazioni e ricoveri di fortuna negli spazi comuni e negli anfratti degli edifici. Da quel momento vandalismo, abbandono da parte delle autorità e totale assenza manutentiva hanno lasciato spazio solo a degrado, corruzione e insediamenti malavitosi. Alla fine degli anni ’80 le Vele divennero sempre più oggetto di dibattito pubblico e s’iniziò a chiederne l’abbattimento e la sostituzione con palazzine di dimensioni contenute, dove trasferire i residenti.
La prima struttura a essere abbattuta fu la Vela F del lotto L, nel 1998, a cui seguirono le altre due dello stesso lotto: la vela G fu demolita nel 2000 e nel 2003 la stessa sorte toccò alla Vela H. Rimanevano le quattro vele del lotto M, alla cui classificazione alfabetica se ne aggiunse una cromatica, per cui la Vela A divenne la Vela Verde, la B la Vela Celeste, la C la Vela Gialla e la D la Vela Rossa. Nel frattempo la costruzione delle palazzine e degli spazi comuni che avrebbero dovuto contribuire alla riqualificazione del quartiere di Scampia si fermò per mancanza di fondi e gli abitanti vennero nuovamente abbandonati a sé stessi, lasciando che la questione delle Vele di Scampia diventasse oggetto di dibattito tra gruppi favorevoli alla demolizione delle altre quattro vele o alla loro rigenerazione.
Tra questi ultimi, un nutrito numero di architetti e accademici presentò una petizione contro la decisione di demolire un’importante testimonianza architettonica a favore di un recupero, così come è successo, e sta succedendo, per altri edifici che condividono una storia e un’evoluzione analoghe. Ada Tolla, architetto italiano docente alla Columbia University di New York, scrisse nel 2015 in un servizio sul New York Times come per lei fosse importante riconoscere che le Vele non sono un fallimento dell’architettura, ma piuttosto un fallimento della realizzazione e della gestione. La demolizione è spesso un tentativo di nascondere le cose sotto il tappeto e non mi sembra il modo giusto per imparare dal passato.
Ciononostante, il comune di Napoli nell’agosto del 2016 sancì con una delibera la decisione di abbattere in sequenza le tre vele Verde, Gialla e Rossa, preservando la sola Vela Celeste per essere riqualificata ad alloggi temporanei e, in ultima battuta, a sede della Città Metropolitana. Così, il 20 febbraio del 2020 è stata avviata la demolizione della Vela Verde, quale prima operazione del progetto Restart Scampia, che, dopo l’abbattimento delle altre due vele, si propone di realizzare oltre 170 nuovi alloggi popolari, sistemare gli spazi circostanti e potenziare i servizi pubblici dell’area. Il progetto prevede anche il completamento della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Federico II e la riqualificazione del Parco di Scampia, con nuove connessioni con l’intorno urbano.
A distanza però di oltre un anno dall’avvio della demolizione della Vela Verde, trasformata in un penoso spettacolo pubblico in cui, prescindere dagli intenti, è stato impossibile non leggerne l’impronta populista e demagogica, l’area dove sorgeva la struttura si presenta ancora come un cumulo di materiali di risulta, il cantiere è chiuso e i numerosi abitanti delle restanti Vele, tra censiti e abusivi, continuano a vivere in condizioni di tale degrado da rendere urgente la ripresa dei lavori di creazione degli alloggi provvisori e dei nuovi alloggi e d’interventi sulle palazzine assegnate agli ex residenti che già, a distanza di pochi anni, richiedono numerosi lavori di manutenzione. In vista dell’abbattimento delle prossime due Vele, previsto per il 2022, riemerge così, legittimamente, il dubbio che sostituire delle strutture con altre costruzioni senza un complesso progetto sociale di recupero, che oltre alla creazione di servizi e infrastrutture, agevoli lo sviluppo di opportunità lavorative, ricreando i valori tipici dei centri urbani, possa solo servire, come già successe con la demolizione degli edifici del lotto L tra il 1998 e il 2003, a far migrare i problemi in altre aree, spesso limitrofe, senza mai risolverli.
Roberta Busnelli (Direttore Editoriale di IQD)