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Naked Architecture, Valerio Paolo Mosco per IQD

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La Naked Architecture si presenta scabra e ruvida, ostentando deliberatamente la propria struttura a scheletro o le pareti in cemento armato prive di rivestimenti. In quanto tale, è un’architettura che tende al tatto. È un’invenzione moderna e nasce come vera e propria apparizione alla fine del ’700 con la Capanna Primitiva di Laugier e con lo schizzo del museo di Friedrich Gilly. Entrambi questi modelli compendiano ancor oggi le ragioni della naked architecture, da quelle tettoniche a quelle simboliche. Due sono i suoi momenti fondamentali. Il primo è quello delle avanguardie dello scorso secolo. Se prendiamo la Torre di Tatlin è chiara la volontà di dar vita a un monumento nudo, una vera e propria rielaborazione della Tour Eiffel, in cui la struttura è simbolo della nuova civiltà collettivista che la stessa celebra. Il secondo è quello degli anni ’50, quando il brutalismo di cemento armato, inventato da Le Corbusier, è riuscito a incarnare l’esistenzialismo del dopoguerra.

Con l’avvento del postmoderno, ovvero con l’avvento dell’architettura degli involucri, la naked architecture si offusca e tende quasi a scomparire: l’esposizione del corpo nudo architettonico non si addice a un periodo che da Venturi e Scott Brown ha preposto alle ragioni costruttive quelle rappresentative e comunicative. In questo periodo la struttura è andata perdendo il suo potere evocativo e simbolico. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un inaspettato rifiorire della Naked Architecture, che si è espresso con un vero e proprio denudamento di quegli involucri che per decenni hanno caratterizzato l’architettura. Alcuni autori come Anton Garcia-Abril, Mauricio Pezo e Sofia Von Ellrichshausen e Arno Brandlhuber possono essere considerati paradigmatici a riguardo.

Antivilla, Germania, Brandlhuber+Emde, Burlon, Photo © Erica Overmeer
Studio Klostergasse, Austria, Bernardo Bader Architekten, Photo © Adolf Bereute

Ma l’attuale riscoperta della naked architecture propone delle diversità rispetto al passato. In essa sono ormai stemprate le istanze etiche e ideologiche, mentre prevalgono quelle squisitamente estetiche, che devono molto all’arte figurativa e alle installazioni. Inoltre, in essa prevale un’attitudine concettuale, spesso una sofisticazione, che è ben diversa rispetto alla pura fisicità della moderna tradizione naked. Anche in questo caso comunque la volontà di denudamento appare come una ripulsa nei confronti dell’architettura commerciale, di quell’architettura che è andata sempre più sposando il real estate speculativo. In filigrana, nelle odierne forme denudate leggiamo inoltre un appello a quell’autorialità del fare architettura che da più parti sembra minacciata. Un’autorialità che si appella alla forza espressiva dei materiali e delle tecniche costruttive primarie, come se le stesse potessero essere la garanzia per non scivolare nel consumismo formale e nell’impersonalità tecnica.

L’odierna naked architecture nega inoltre la volontà di ridurre l’oggetto architettonico a simulacro per la comunicazione di massa, come anche il neo-funzionalismo, che equipara lo stesso a una sempre più confortevole e consolatoria macchina per abitare. È interessante notare come la moderna naked architecture si vada affermando a dispetto di un mercato edilizio che sempre più impone, per ragioni di efficientamento energetico, l’aumento di strati isolanti e coibenti. Un aspetto che ribadisce ancor oggi la natura oppositiva di un’architettura che intende evocare il valore simbolico della nuda corporeità.

Swiss National Museum Extension, Switzerland, Christ & Gantenbein, Photo © Walter Mair
Pearling Site, Bahrain, Valerio Olgiati, Photo © Archive Olgiati

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